2014 ~ Ladri Di VHS

66° Berlin International Film Festival

A Berlino dall'11 al 21 Febbraio 2016.

69° Festival de Cannes

A Cannes dall'11 al 22 Maggio 2016.

73° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica

A Venezia dal 31 Agosto al 10 Settembre 2016

domenica 28 dicembre 2014

MOMMY


Regia: Xavier Dolan
Origine: Canada
Anno: 2014
Durata: 134'
Attori protagonisti: Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément

Dopo cult-movie come J'ai tué ma mère e Tom à la ferme è finalmente arrivata in Italia la quinta fatica di Xavier Dolan alla regia. Accolto trionfalmente a Cannes dove ha vinto il premo della giuria, la pellicola racconta la storia di una madre single che si trova ad affrontare da sola la crescita del figlio quindicenne assai problematico. In suo soccorso arriverà una vicina che rivoluzionerà le loro vite portando una serenità effimera.



Dopo aver affrontato l'argomento madre-figlio nel suo sorprendente film d'esordio, J'ai tué ma mère, il regista canadese ci riprova con questa sua nuova opera. È un film che riprende temi già affrontati dallo stesso regista ma lo fa in maniera nuova e da altre prospettive, aggiungendo nuove esperienze. Non è più solo rapporto a due tra genitore e figlio. Si aggiunge una terza figura che dà ancora più spessore al racconto risultando alla fine la personalità più interessante. Siamo di fronte a scelte coraggiose anche dal punto di vista puramente cinematografico già dalla scelta del formato, non il solito 16:9 ma un'inquadratura quasi 1:1 che permette di vedere quasi sempre massimo un protagonista alla volta come a rappresentare la mancanza di visuale sul futuro dei tre e dando un senso di chiuso allo spettatore. Solo nelle uniche due scene di serenità tutti i protagonisti sono ripresi insieme. Il solo momento in cui sembra esserci un avvenire non scritto lo schermo diventa a grandezza standard. Ben presto, causa ritorno all'isolamento interiore di ognuno, si ritorna alla visione claustrofobica 1:1.



In questo film ci sono tutti i sentimenti che la vita racchiude. Si ride, si piange, si pensa, ci si incazza. La forza assoluta di Dolan è quella di non limitarsi a raccontare una storia ma quella di far entrare l'obbiettivo dentro l'animo delle persone che racconta. È un viaggio al loro interno ma anche nel nostro. Ottima prova di tutto il cast, a partire dal giovane Pilon, perfetto nei sui scatti d'ira, per arrivare alla balbuziente Dorval, di sicuro la miglior interpretazione, passando per la Clément. Si ha come l'impressione che il regista abbia modellato a proprio piacimento gli attori come farebbe un artista con la creta. Quello che più impressiona è come a soli 25 anni abbia ormai acquisito tutti i mezzi tecnici per entrare così in profondità nell'animo umano. La sua forza è quella di non accontentarsi del convenzionale ma neanche di cercare qualcosa di stupefacente a tutti i costi, di rendere il tecnicismo funzionale alla storia e non fine a sé stesso. Se tre indizi fanno una prova qua siamo già al quinto. Ci troviamo al cospetto di un grande autore e regista. Di certo questo film è entrato di diritto nella personale top 5 del 2014.




Al Barbone

martedì 23 dicembre 2014

FURY


Regia: David Ayer
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 134'
Attori protagonisti: Brad Pitt, Shia LaBeouf

Nuova fatica per il regista americano Ayer che si cimenta con una dei temi preferiti della produzione hollywoodiana, il film di guerra. Siamo alle battute finali della Seconda Guerra mondiale con l'esercito tedesco pronto a resistere fino all'ultimo e gli alleati ormai prossimi alla vittoria. Malgrado questo la storia ha bisogno di eroi, in questo caso Brad Pitt, al comando del carro armato Fury e il suo equipaggio composto da altri quatto uomini.


Ci troviamo di fronte a una pellicola che ha intenti chiari: mostrarci l'orrore della guerra, il cameratismo tra l'equipaggio e il coraggio degli americani che hanno salvato il mondo. Peccato che il tutto sia fatto in maniera retorica e senza creare la minima empatia tra lo spettatore e i protagonisti. Per rappresentare il brutto della guerra non basta far schiacciare cadaveri dal carro armato o rendere verosimili le uccisioni. I personaggi non sono per nulla caratterizzati e tutto è lasciato in superficie. Non ci si spiega perché avere un bravo attore come Pitt, imbruttito ad arte nel fisico, e poi fargli fare la stessa espressione per tutto il film. Anche i rapporti tra i vari componenti dell'equipaggio sono stereotipati con la recluta che viene presa di mira all'inizio e poi adottata.


Dispiace per la resa finale perché alcuni spunti che facevano ben sperare c'erano. Il considerare il carrarmato come casa e il ripetersi come un mantra da parte dei protagonisti che la guerra è il miglior lavoro. Da questo film non si pretendeva di rivoluzionare il genere ma almeno di rispettarne i canoni. Siamo ben lontani dai capolavori che hanno fatto delle pellicole di guerra spesso dei cult movie. A dire il vero qua siamo lontani anche dalla sufficienza.




Al Barbone

sabato 20 dicembre 2014

MAGIC IN THE MOONLIGHT


Regia: Woody Allen
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 97'
Attori protagonisti: Colin Firth, Emma Stone

A quel piccolo ometto di Woody Allen è impossibile volere male, a maggior ragione quando ci si rende conto che per lui fare film è davvero tutto, anche leggendo alcune sue piccole interviste. Quindi l’appuntamento annuale con un film del genio newyorkese è ormai una tappa fondamentale per ogni appassionato che si rispetti. Dopo alcuni passi falsi, Allen è tornato l’anno scorso con Blue Jasmine (che abbiamo recensito ai tempi), un film abbastanza riuscito e anche molto amaro. Quest’anno ci porta nel 1928, nel Sud della Francia, dove Stanley (interpretato da Colin Firth), un famosissimo illusionista, viene incaricato di smascherare una giovane sensitiva di nome Sophie, interpretata da una splendida Emma Stone.


C’è da dire innanzitutto che la prima cosa che colpisce è l’estremo gusto fotografico che ci accompagna per tutta la durata, piccoli quadri in movimento si susseguono sequenza dopo sequenza, affascinando e ammaliando. In questa cornice Allen ripropone diversi temi a lui molto cari, come il rapporto con Dio e la fede in generale, il rapporto con la filosofia, il tutto filtrato con il solito approccio nichilista che è la spina dorsale di gran parte delle pellicole di Allen. In questo lungometraggio, grazie all’ottimo e sornione Colin Firth, ci porta nei meandri di una ricca famiglia della Provenza, in evidente crisi d’identità, che cerca appiglio nella magia, nel paranormale, mostrandoci una borghesia spaesata e senza effettivi punti di riferimento. Stanley fa da contraltare con la sua ironia tagliata con l’accetta, cercando di far crollare i castelli di carta di tutti coloro che lo circondano. L’incontro con la giovane sensitiva, però, farà emergere lati della sua personalità che non poteva immaginare di possedere, incominciando una ricerca interiore che lo porterà a rivedere e a rivalutare in negativo tutto ciò a cui aveva creduto fino a quel momento e, di fatto, a farsi trasportare dall’inaspettata bellezza della vita.


È un film liberatorio, dove Allen opera un'ennesima catarsi, trasportando sé stesso e le sue idee all’interno del personaggio principale (escamotage utilizzato molto spesso, basti pensare, parlando di suoi film più recenti, al Boris di Basta che funzioni), senza aggiungere nulla di nuovo al suo percorso, perché, come già detto, sono temi quelli affrontati qui già setacciati per bene in passato dal regista, ma che vengono proposti con una genuinità tale che non si può non provare un’immensa stima per questo autore, che si diverte anche in questo lavoro a prenderci un po’ in giro, a depistarci, a farci credere una cosa per un’altra, a darci una nuova visione dei personaggi che verrà scardinata un attimo dopo, ma facendo prevalere i buoni sentimenti, il che non fa male. In definitiva, una pellicola riuscita, gradevole e ben scritta, di certo non un capolavoro, ma molto onesta e di classe se vogliamo. Insomma, nel bene o nel male, vedere un film di Allen, che pare essere tornato in sé dopo la cantonata To Rome With Love, non può che essere un piacere, e gli auguriamo di continuare a fare film per altri cento anni.


Martin Scortese

mercoledì 17 dicembre 2014

GONE GIRL


Regia: David Fincher
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 149'
Attori principali: Ben Affleck, Rosamund Pike

Nick (Ben Affleck) torna a casa il giorno dell'anniversario di matrimonio senza la minima idea di cosa regalare alla moglie, che però sembra scomparsa nel nulla. Anche se preoccupato Nick non sembra sorpreso, sa che il matrimonio è giunto ormai alla fine e conosce benissimo il forte temperamento di Amy (Rosamund Pike). Inizia un'indagine personale che getta una nuova luce sul suo matrimonio.


Da Zodiac in poi, David Fincher ha in sostanza girato lo stesso film. Lunghe “parti” di narrazione interrotte da piccole scene, quasi degli sketch che fanno da snodo. Momenti topici sottolineati dal fantastico lavoro di Trent Reznor (in coppia con Fincher solo negli ultimi tre e con The Social Network vincitore dell'Oscar per la migliore colonna sonora nel 2011). I toni si alzano. I personaggi dopo ogni svolta sono sempre un po' cambiati, sempre meno ottusi, sempre più aperti a considerare ogni eventualità dell'inchiesta. Fincher, che nella sua carriera ha sempre avuto modo di sperimentare generi e stili s'è come standardizzato. Il metodo, dobbiamo dirlo, funziona. Anche perché a quest'impianto si va ad aggiungere un grandissimo gusto per scenografia e fotografia. Una grande cura per i personaggi secondari, tutti distinguibili e tutti con dietro una storia di vita fatta per essere esplorata. Ogni sequenza è sempre ricca di particolari, di gesti che contribuiscono a rendere credibile il mondo creato nei suoi thriller.



A tenere in piedi quest'ultimo lavoro è però solo la struttura. La performance dei due coniugi Affleck e Pike, fa in modo che il film fili liscio e incuriosisca (quasi) fino alla fine. Affleck è distratto, ironico e superficiale. Non sembra mai interessato alla sparizione della moglie fino a quando il fatto non lo tocca in primissima persona. È una zona grigia tra thriller e commedia che Affleck interpreta benissimo. La voce della Pike invece è sempre fuori campo, anche quando non sembra. È robotica, è eccessivamente controllata. È fastidiosa. Non è possibile recitare così. Le nostre perplessità vengono chiarite a metà film, quando la vicenda si mostra per quella che è. Evitando di anticipare troppo possiamo dire in modo abbastanza obbiettivo che è da questo momento in poi che la storia non tiene. Non c'è crescita, non c'è consapevolezza. Tutto viene “mostrato” così com'è e niente ci viene spiegato. Sembra che Amy agisca così dalla culla e che i suoi genitori siano due perfetti idioti. Il poliziotto incarna il classico cliché della lesbica in uniforme, la donna con le palle cinica con una schiappa d'aiutante pronto a dire banalità. Entrambi non si capisce però cosa minchia facciano per tutta la durata dell'indagine. Neil Patrick Harris è una barzelletta. Manca solo la collezione di dvd porno per vedere Barney Stinson sullo schermo. Gli ultimi minuti fanno quasi sorridere. Con una prima soluzione dell'indagine a cui si deve credere per fede e un finale confuso e senza giustificazione.


Il film vince perché grottesco, perché ironico. Vince se vogliamo vedere in Gone Girl una storia kafkiana, dove non è permesso fare domande. Questa lettura (forse un po' forzata) ci viene in parte suggerita dal contrappunto musicale di Trent Reznor, molto più discreto rispetto ai lavori precedenti (molto meno Nine Inch Nails). La sua musica non incalza mai perché non può (la storia non riesce a svoltare ma solo a contraddirsi). Reznor con una magia riesce a dare un minimo di coerenza al delirio. Trasforma questa lunga serie di contraddizioni in sogno.





Isaia Panduri

lunedì 15 dicembre 2014

JOHN WICK


Regia: Chad Stahelski
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 101'
Attori principali: Keanu Reeves, Willem Dafoe, Michael Nyqvist

 “Una volta gli ho visto uccidere tre uomini in un bar... Con una matita.”

Ecco chi è e cosa è John Wick, nient’altro che un ex killer che torna in azione facendo piazza pulita, niente di meno che un buon film il cui script è rimasto nel cassetto per troppo tempo, quasi due anni. Messo così, sembra un banale sparatutto come altri mille ma in realtà c’è molto di più.


John Wick pesca selvaggiamente dal cinema di Melville e dai suoi antieroi, coi loro codici d’onore che ne contraddistinguono non solo il comportamento ma anche il linguaggio, il modo di muoversi e di relazionarsi con “gli altri”. Tutte caratteristiche che Derek Kolstad è riuscito a riportare in questo hard boiled ben diretto da Chad Stahelski che a sua volta è riuscito a disseminare in questa pellicola tutta una serie di indizi che chi conosce film come Le Samouraï o Le Cercle Rouge noterà all’istante.


I personaggi si muovono all’interno di una società criminale ben organizzata, con i suoi punti di ritrovo, le sue leggi e anche una sorta di moneta interna. Tutto ciò non viene spiegato, viene solo mostrato senza alcuno straccio di giustificazione. John per godere di alcuni servizi speciali pagherà con particolari monete d’oro e farà lo stesso per entrare in certi bar o per prendere da bere e il motivo non ci interesserà minimamente, lo fa perché è quello il mondo in cui vive e va benissimo così. Non abbiamo premesse ma solo fatti.


La storia è a dir poco banale, con delle premesse apparentemente al limite dell’idiota. John faceva il killer, era il migliore sulla piazza e si è ritirato per amore della propria donna ma il figlio di un boss russo combina una cazzata che lo obbliga a rivestire i panni di Baba Yaga, Boogeyman, l’Uomo Nero, come lo chiamano tutti quelli che lo conoscono, ovvero tutti a parte questo rampollo russo interpretato da un sempre sfortunatissimo Alfie Allen (i fans di Games Of Thrones sanno il perché dello “sfortunatissimo”). Perché un aspetto su cui bisogna puntare l’attenzione è che TUTTI conoscono John Wick, lui è la leggenda, il migliore. Ciò contribuisce a strappare più di una risata in più di un’occasione facendo morire dalla curiosità di sapere cosa diavolo abbia potuto fare John per godere di un rispetto così smisurato in ogni dove.


Il film è girato sapientemente e non poteva essere altrimenti. Se ai più i nomi di Stahelski (il regista) e Leitch (il produttore principale insieme a Eva Longoria) non dicono nulla, basti sapere che il primo si è occupato delle scene di combattimento di The Matrix ed è colui che ha sostituito Brandon Lee in The Crow nelle scene di combattimento e dopo che successe il fattaccio, il secondo ha curato invece le scene di combattimento di Fight Club, Mr. & Mrs Smith e Troy. Quindi parliamo di gente che per la prima volta sta alle redini ma che ha parecchia esperienza. Infatti il risultato è più che notevole.


Il cast conta tanti bei nomi. Dal già citato Theon Greyjoy, all’instancabile Willem Dafoe, passando per il protagonista, un adattissimo Keanu Reeves, con tanti comprimari d’alto livello come Michael Nyqvist e Ian McShane. Da notare inoltre la partecipazione di tanti attori e attrici provenienti dal mondo delle serie TV che se la sono cavata bene, vedi Lance Reddick (The Wire, Fringe e altro). La scelta del cast risulta particolarmente azzeccata perché i personaggi in alcuni casi sono stati cuciti addosso agli attori. Inizialmente John Wick doveva essere un sessantenne, quando però Reeves ha dato piena disponibilità il ruolo è stato riscritto per “qualcuno non grande letteralmente ma che avesse un passato importante nel mondo dei film”, dice uno dei produttori. Allo stesso modo Dafoe fa la parte del killer della vecchia guardia, uno di quelli dal solido passato e che non ha mai sbagliato un colpo.


In definitiva, se credete che questo sia l’ennesimo filmaccio girato male, scritto peggio e interpretato da cani con frasi a effetto ed esplosioni alle spalle del protagonista, fatevi il favore di ricredervi. John Wick è un film che ammicca ai noir francesi degli anni settanta, girato bene e che riesce a intrattenere molto piacevolmente per un’ora e venti con delle scene di combattimento molto realistiche, il tutto con degli ottimi attori che si riempiono di mazzate. Consigliatissimo.





Ingmar Bèrghem

martedì 2 dicembre 2014

V/H/S: VIRAL


Regia: Nacho Vigalondo, Marcel Sarmiento, Gregg Bishop,
Justin Benson, Aaron Scott Moorhead
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 81'
Attori principali: Emmy Argo, Emilia Ares Zoryan, Justin Welborn

La saga di VHS è una delle cose più interessanti successe all'horror negli ultimi anni. Se REC è un esempio di perfetto found footage, originalissimo ma in un certo senso capace di serietà. Un girato che sembra amatoriale ma non opera di uno sprovveduto. I vari VHS hanno spinto un po' più in là il limite tra quello che la tecnica può e non può permettersi. Sin dal primo episodio hanno introdotto una certa dose di erotismo, di ironia e autoironia. Hanno strizzato l'occhio all'internet dei revenge porn, dei film gonzo e di YouReporter. Toccando punte altissime di reportage giornalistico in Safe Heaven.



È proprio internet a entrare nel mirino del terzo capitolo della saga. È evidente sin dalla cornice quanto il progetto sia diventato più ambizioso ( una grandiosa raccolta di video mostruosi destinati a diventare virali. Mostruosità che infetterà poi gli utenti della rete). Nel primo racconto, Dante the Great (la storia di Dante, un illusionista che deve la propria fortuna a un mantello magico) si sperimenta il mix di mockumentary e fiction canonica. Idea audace ma il risultato è più che incerto. La fusione delle due tecniche fa sembrare l'episodio più un trailer che un racconto compiuto. Meglio riuscito è Parallel Monsters, l'idea di un ragazzo che scopre una versione mostruosa della propria realtà è surreale. Viviamo il suo stesso incubo, un incubo che incuriosisce e non ripugna. L'idea dietro Bonestorm invece non si capisce quale sia e non si capisce in che modo la storia dovrebbe metterci paura o sorprenderci. Quattro ragazzetti fanno skate in Messico e per sbaglio evocano una super squadra di zombie.


Il gioco della saga VHS è quello di darti qualcosa di appetitoso e di togliertelo da sotto il naso proprio mentre stai per gustartelo. Quest'intuizione ha contribuito a creare storie che intrigano, che non stancano. Ne vorresti una dopo l'altra all'infinito. Qui però si esagera. Il migliore episodio viene rovinato da una caduta di stile voluta e per questo forse fastidiosissima. Molte bellezze anche qua, ma manca del tutto la carica erotica di alcune vignette precedenti. La cornice è troppo elaborata e si scopre troppo presto. La funzione anticipatrice della pellicola rovinata è poco funzionale e l'effetto glitch risulta freddo e superfluo. Aspettando di poter vedere Gorgeous Vortex (episodio a quanto pare rimosso, e dalle foto trapelate in rete anche molto interessante) noi continuiamo a tifare per il progetto VHS. Da qui in poi però con le dovute riserve.




Isaia Panduri

sabato 29 novembre 2014

PREDESTINATION

 

Regia: Michael e Peter Spierig
Origine: Australia
Anno: 2014
Durata: 97'
Attori protagonisti: Ethan Hawke, Sarah Snook

Prendete carta e penna e sedetevi. Scrivete su un foglio “La frase scritta dietro è vera”, girate il foglio sulla faccia opposta e scrivete “La frase scritta dietro è falsa”. Date l’oggetto eterno così costruito a un vostro malcapitato conoscente. Sono passati circa sei anni da quando mi è stato fatto questo giochino ma mi torna affettuosamente in mente tutte le volte che mi trovo a vedere un film o leggere una storia sui viaggi nel tempo. Tra i film della mia infanzia c’è ovviamente la trilogia di Back To The Future ma la questione “paradossi & affini” è sempre stata una tematica che mi ha incuriosito. Per questo, in sostanza, sull’argomento non sono puntiglioso. Sono proprio un rompiscatole.


Predestination è il nuovo film dei fratelli Spierig basato su —All You Zombies— di Robert A. Heinlein che, per chi non avesse avuto la fortuna di incappare nella collana Urania, è stato tra gli autori di fantascienza più rilevanti della sua epoca (insieme a P.K.Dick, Asimov, Bradbury, Ballard e qualcuno che mi sono perso per strada), il cui immaginario era già finito sul grande schermo con Starship Troopers.


Se il titolo non vi ha già detto tutto della trama facendovi pensare al Paradosso Della Predestinazione, tanto meglio, riuscirete a godere meglio di un film ben scritto che si svelerà poco per volta riuscendo a catturare sicuramente la vostra attenzione. In caso contrario, sappiate che chi recensisce odia gli spoiler come la peste, quindi potete stare sereni. Il film racconta la storia di un barista e di una cliente che si incontrano al bancone, fanno due chiacchiere informali e poi fanno una scommessa. “Ti racconterò la storia più incredibile che tu abbia mai sentito” dice la donna. Se avrà ragione vincerà una bottiglia di whiskey single malt, in caso contrario darà venti pezzi di mancia. È con questo artificio che andiamo alla scoperta della vita del protagonista attraverso varie epoche.


Un film molto curato in ogni dettaglio. Dai dialoghi, tanto precisi quanto svianti al punto giusto, alle ambientazioni che riescono a ricreare perfettamente le varie epoche della narrazione, nel vestiario, nell’arredamento, in maniera fedele. Ethan Hawke si riconferma su livelli alti dopo aver definitivamente svestito i panni di Jesse della Before Trilogy di Linklater e duetta perfettamente con la bella (lei nel film dice di no, io dico di sì) Sarah Snook che pur essendo alle prime esperienze fa un’ottima prova. Un film che vale la pena vedere, ottima sorpresa dall’Australia che speriamo possa arrivare presto anche nei nostri cinema.


Fine della recensione, seguono S P O I L E R ed elucubrazioni mentali. Per proseguire premere il pulsante qui sotto.







Ingmar Bèrghem

venerdì 28 novembre 2014

FILTH

 
Regia: Jon S. Baird
Origine: UK
Anno: 2013
Durata: 97'
Attori protagonisti: James McAvoy

Filth, uscito l’anno scorso in UK, annunciato per quest’anno col titolo Il Lercio in Italia, nessuno sa quando verrà realmente distribuito in questo Paese di ritardatari. Quindi chissenefrega, noi lo recensiamo e voi lo recuperate, che altrimenti va a finire come per Mr. Nobody di Jaco Van Dormael che “sta arrivando” dal 2009.


Per la quarta volta dal 1996, da Trainspotting, la Edimburgo malata descritta dalla penna di Irvine Welsh finisce sul grande schermo. Il soggetto è dello stesso Welsh che però si allontana volutamente di qualche passo dalla trama originale, probabilmente per una migliore resa cinematografica e per evitare problemi di censura. Non fate però l’errore di credere che sia un film tirato a lucido per diventare una commedia per famiglie. Filth è un film sporco, a tratti fortemente grottesco e immensamente bastardo che riesce a cambiare tono continuamente, mettendo a disagio lo spettatore, facendo provare disgusto o compassione per quel personaggio che cinque minuti prima aveva suscitato ilarità.


Il protagonista è Bruce "Robbo" Robertson, un sergente di polizia che incarna il peggio del peggio, interpretato da un fantastico James McAvoy. Cocaina, whiskey, film porno e violenza gratuita sono solo alcuni degli hobby del sergente Robbo che farà di tutto per ricevere la promozione che a suo dire risolverà ogni problema. E quando dico “tutto” intendo veramente ogni cosa. Ogni altro pretendente alla promozione sarà manipolato nella maniera più subdola possibile e messo fuori gioco.


Tutto questo accade durante le indagini per l’omicidio di un cinese da parte di alcuni teppisti locali. Il protagonista, armato praticamente solo della sua bastardaggine, in poco tempo individuerà i colpevoli ma per una serie di intrecci il caso gli sarà tolto per essere affidato a una sua collega. È a questo punto che la commedia lascia spazio al dramma e il personaggio spaccone e divertente si eclissa mostrando una persona malata e sola che ha trovato rifugio nel vizio.


Un film delirante con sequenze oniriche da stato allucinatorio, esagerato, a tratti caricaturale. Un personaggio estremamente sfaccettato che ha coscienza di essere l’unico vero protagonista della storia, che si concede il lusso di ammiccare allo spettatore guardando in camera senza far sembrare ciò un’esagerazione. Un personaggio interpretato in maniera eccellente da McAvoy che ha portato a casa il premio come miglior attore al British Independent Film Awards, al London Critics Circle Film Awards e agli Empire Awards. Divertente, amaro, lascia spazio a più di una riflessione e sicuramente non piacerà a tutti ma assolutamente da vedere. Chi ha letto il libro sarà magari deluso dal fatto che la storia sia stata un po’ stravolta ma questo è un film che si regge esclusivamente sul suo protagonista più che sugli sviluppi della trama e dato che, come già detto, la caratterizzazione di Robbo è stata eccellente, non c’è motivo di dispiacersi.




Ingmar Bèrghem

lunedì 24 novembre 2014

DRACULA UNTOLD

 

Regia: Gary Shore
Origine: USA
Anno: 2014
Durata: 92'
Attori protagonisti: Luke Evans, Sarah Gadon, Charles Dance

Avete presente Bram Stoker's Dracula di Francis Ford Coppola, con un Gary Oldman troppo figo che non aveva ancora vestito i panni di Sirius Black e del commissario Gordon? Ecco, custodite questo gran film con gelosia in un angolo della vostra memoria perché Dracula Untold è totalmente un’altra cosa. Anzi facciamo che il confronto tra le due pellicole finisce qui perché sparare sulla Croce Rossa non è carino.


Questa pellicola inaugura il reboot del Monster Universe da parte di Universal Pictures. Quindi tenetevi pronti (?) a rivedere sul grande schermo Frankenstein, la Mummia, l’Uomo Invisibile, l’Uomo Lupo e altri “mostri” solo perché Universal non ha i diritti su nessun personaggio dei fumetti (a parte Namor. Ecco, appunto). Fare il confronto con film che sono stati capisaldi/parola-con-la-C di un genere sarebbe impietoso quindi evitiamo pure di accennare al Nosferatu di Murnau e già che ci siamo: mannaggia a Herzog e quando l’ha ripreso.


Dracula Untold vorrebbe non soltanto riprendere la storia del conte Vlad dal punto di vista storico ma anche riscriverla dal punto di vista cinematografico, facendo un film che vada bene per grandi e piccini, con un Dracula marito buono e padre amorevole, il tutto senza versare una goccia di sangue. E magari ci buttiamo dentro pure un’eterna lotta tra bene e male qua e là che non fa mai male. A quanto pare a nessuno è venuto in mente che forse si stavano facendo prendere troppo la mano.


Il risultato è un giocattolone ma di quelli che funziona male. Più simile come meccanismi a un film su Superman che altro, con la scoperta dell’invincibilità e dei propri punti deboli, il sacrificio per il proprio popolo, l’amore per la propria donna e un sacco di altre cose abbastanza fuori luogo in una storia su questo personaggio. Sempre meglio di Man Of Steel, sia chiaro. Ma quello non è catalogabile nemmeno come film, Dracula avrebbe salvato cane, padre, paese, uragano e poi sarebbe tornato a combattere il Maometto con l’eyeliner di questa storia.


Dal punto di vista visivo e degli effetti speciali abbiamo duecento milioni di miliardi di tonnellate di computer grafica che servono sostanzialmente per far comandare a Dracula i pipistrelli in battaglia. Cosa che fa un po’ ridere soprattutto quando lo stormo di topi volanti assume la forma della mano di Vlad. Credo che a chiunque siano venuti in mente i cartoni di Tom & Jerry con le api che prendono la forma di martelli giganti, mani che afferrano e cose del genere. Non si può non ridere. Stupide cazzatone insensate ma realistiche, per farla breve.


In sostanza il film parte con delle ambizioni a dir poco enormi (e poi vi lamentate di Interstellar?) senza riuscire a centrare neanche uno dei mille obbiettivi. Il risultato è un prodotto diretto male, scritto peggio e interpretato... No, bisogna ammetterlo, l’interpretazione di Luke Evans è molto buona e Sarah Gadon (che sarebbe Mirena, la moglie di Vlad) fa il suo riuscendo a caratterizzare decentemente un personaggio che lo sceneggiatore ha messo lì quasi come incidentale per giustificare certe scene. In conclusione, un film davvero evitabile. Però le armature sono belle.





Ingmar Bèrghem

martedì 18 novembre 2014

INTERSTELLAR


Regia: Christopher Nolan
Origine: USA 
Anno: 2014
Durata: 169'
Attori protagonisti: Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Jessica Chastain, Casey Affleck

Sì, lo so che su Interstellar ne avete sentite di cotte e di crude, che non si parla d’altro, tra chi lo innalza a capolavoro assoluto del genere e a chi lo boccia a prescindere. So anche, e soprattutto, di non essere d’accordo con nessuna della due tifoserie, anche perché Interstellar è sicuramente un film imperfetto, ma allo stesso tempo molto affascinante e audace (che di questi tempi non fa mai male). E fa ridere che per cercare di smontarlo si tenti di fare perizie minuziose su quanto siano attendibili o meno le tesi scientifiche che sono disseminate in tutta la pellicola. Fondamentalmente, cosa vi sfugge della parola Fantascienza? Con ragionamenti simili praticamente ogni film di questo genere dovrebbe essere una cagata, e per fortuna così non è.


Il film è incentrato sulla figura di Cooper, interpretato da un gran Matthew McConaughey, padre di famiglia che vive insieme ai suoi figli in questa fattoria che risente delle condizioni critiche in cui versa il pianeta Terra: il grano non si produce più e di lì a poco la stessa sorte toccherà al mais. L’uomo va incontro all’estinzione, insomma. Per una serie di circostanze misteriose, il protagonista, da ingegnere e da ex pilota militare, si ritroverà a capo di una spedizione finanziata dalla NASA (ormai diventata una vera e propria società segreta, vista la diffidenza dell’umanità, che come abbiamo già detto versa in condizioni agricole disastrose, in progetti interspaziali come questo) volta a trovare nuovi pianeti su cui far emigrare le persone della Terra costrette a un’esistenza al limite dell’apocalittico. Da qui nasce la profonda frattura tra Cooper e la figlia, che non gli perdonerà di aver accettato di far parte di una missione pericolosissima che rischierà di allontanarli per sempre.


Il tema importante del film, al di là di tutte le divagazioni scientifiche, è il viaggio, o meglio ancora la scoperta. Il sondare aspetti della propria personalità spinti al limite, in un contesto beffardamente tranquillo e soave, in cui il tempo è tiranno in tutti i sensi, in cui si entra in empatia con le altre persone coinvolte in questo straordinario viaggio. Nolan decide di optare spesso per un sguardo documentaristico, volutamente “sporco” oserei dire, che dà forza visiva al film, completamente fuori da certe patine stilistiche adottate da altri film del genere usciti negli ultimi anni. Si sono sprecati paragoni tra questo film e l’opera massima di quel signorino che fu Stanley Kubrick, vale a dire 2001: Odissea nello spazio. È un paragone un po’ forzato, visto che sono due film che inevitabilmente, anche involontariamente, si toccano ma che proseguono nel loro discorso in maniera totalmente differente. Più che altro è il paragone con Incontri ravvicinati del terzo tipo (Steven Spielberg, 1977) che mi sembra più calzante, in cui la curiosità, e a tratti anche la morbosità, verso l’ignoto e il misterioso sono la spina dorsale dei due lungometraggi (tant’è che finali dei due film corrono più o meno nella stessa direzione). Parliamo sempre di padri di famiglia che lasciano tutto, pur di seguire un’idea. È un peccato perciò quando Interstellar scade in facili e patetici sentimentalismi in alcuni dialoghi della Hathaway, che sembrano usciti fuori da tutt’altro film, visto anche il modo delicato, umano e commovente con cui Nolan, al contrario, ci abitua trattando dello splendido rapporto tra Cooper e Murph, vale a dire la figlia. Un rapporto sovvertito da un tempo che darà vita a una scena intensissima in cui padre e figlia (interpretata da adulta da una sempre splendida e bravissima Jessica Chastain, di cui io e Isaia Panduri siamo vergognosamente innamorati) si guarderanno da uno schermo avendo la stessa età. 


Lo spettacolo vero e proprio Nolan ce lo riserva nel finale, in cui il coinvolgimento è pressoché totale e in cui il mistero delle leggi che regolano il mondo sembra più facile di quello che è, ricordando anche il racconto La lettera trafugata di Edgar Allan Poe, dove si cerca, si smania per trovare qualcosa, per abbattere quei “fantasmi” che alla fine siamo noi e solo noi possiamo affrontare. Tutto l’ingresso di Cooper nel buco nero è intensissimo, visivamente affascinante, e siamo lì con lui e come lui facciamo esperienza di questo luogo misterioso, che ci si presenta però come un vero e proprio libro aperto, che fa da teatro al definitivo passaggio di testimone tra padre e figlia. E poi? Poi la passione, l’amore per qualcosa, l’amore in generale, spinge Cooper verso il non-conosciuto, ancora una volta, in barba a chi ci ha insegnato a guardare nel fango e a non alzare più la testa.


Martin Scortese


Cerca nel sito